“Non ci sono parole per esprimere la nostra gratitudine per il vostro generoso sostegno, la vostra comprensione e la vostra cooperazione, che nella storia moderna non hanno eguali”.
“Gli Stati Uniti hanno dato a Israele … in che modo posso dirlo davanti a questo consesso? Gli Stati Uniti hanno dato a Israele, al di là dell’appoggio politico e militare, un munifico e magnifico sostegno di ordine economico. Con l’aiuto dell’America, Israele è cresciuto fino a diventare un potente Stato moderno. So di parlare a nome di ogni israeliano e di ogni ebreo del mondo mentre vi dico, oggi: grazie, popolo americano!”.
Queste parole, pronunciate rispettivamente da Yitzhak Rabin e Benjamin Netanyahu nel 1994 e nel 1996, davanti alla sessione congiunta del Congresso, sintetizzano in maniera molto chiara la special relationship che si sviluppa ancora oggi sul binario Washington-Tel Aviv.
Soprattutto a partire dalla presidenza Johnson, questo intimo connubio costituisce un principio inattaccabile della politica estera statunitense in Vicino Oriente e l’incondizionato appoggio ad Israele si manifesta attraverso il massiccio flusso di aiuti, sia economici che militari – oggi corrispondenti in media a tre miliardi di dollari ogni anno – oppure con l’azione politica posta in essere dalla presidenza di turno e dal Congresso, senza dimenticare i “veti” intervenuti in seno al Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
Ciò, negli anni, ha naturalmente precluso la strada ad ogni possibile approccio “even-handed” verso il conflitto arabo-israeliano, in particolar modo rispetto all’altra parte direttamente coinvolta, il popolo palestinese, ed alla drammatica situazione in cui ancora oggi – dopo anni di “processo di pace” e di sforzi diplomatici, soprattutto promossi dagli Stati Uniti – si trova la popolazione civile nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania e nei campi profughi situati nei Paesi arabi confinanti, Libano, Siria e Giordania.
Nel far pendere la bilancia statunitense del conflitto mediorientale pesantemente in favore dell’alleato ebraico un ruolo d’importanza capitale, ed un elemento che va doverosamente approfondito è rivestito dall’incidenza, sul policy-making nordamericano, della “Lobby ebraica”, intendendo con tale accezione la nutrita costellazione di gruppi d’interesse filo-israeliani impegnati ad “orientare” le decisioni di Washington, nonché, a vari livelli, lo stesso pubblico dibattito, a vantaggio di Israele. Tali gruppi – come l’AIPAC, l’American Israeli Pubblic Affairs Commitee, solo per citarne uno tra i più influenti – hanno un grande peso sulla politica estera nordamericana, come a tratti è emerso nelle pagine precedenti, in prima istanza perché in possesso di ingenti disponibilità economiche, da far valere soprattutto in sede di campagna elettorale per questo o quel politico che dichiari, senza mezzi termini, di essere un fedele sostenitore della causa israeliana. Per dirla con Edward W. Said, essi costituiscono “un fronte compatto in grado di distruggere una carriera politica staccando un assegno”.
Recentemente, l’ex presidente nordamericano Jimmy Carter ha dichiarato: “Per i membri del Congresso Usa sposare una posizione bilanciata in merito (al conflitto israelo-palestinese nda) è suicidio politico”. Tale affermazione è stata esternata dall’ex politico democratico in risposta alla valanga di critiche che hanno letteralmente sommerso la sua ultima pubblicazione “Palestine: Peace Not Apartheid”, accusata anche di avere contenuti “antisemiti”, e che ha visto in prima linea, tra i più acerrimi ed ostili analisti, Dennis Ross, navigato politico nordamericano, tra le menti di una delle più influenti think-thank filo-israeliane, il WINEP, il Washington Institute for Near East Policy, i cui rapporti, spesso, hanno fatto da bussola per il Vicino Oriente alla presidenza di turno, e uno dei primi esponenti dell’AIPAC. “Sono vittima della potente AIPAC” - si è difeso Carter – “che da trent’ anni sopprime in America ogni equilibrata discussione su un argomento intensamente dibattuto in Israele e nel resto del mondo». Detto da un ex presidente, ciò non può non far sorgere delle riflessioni. D’altronde, anche durante gli anni del suo mandato alla Casa Bianca Carter ha manifestato tutta la sua “vulnerabilità” nei confronti della Israel lobby quando, ad esempio, nel corso di un colloquio svoltosi nel 1977 con l’allora Ministro degli Esteri egiziano Ismail Fahmy, egli ammise: “Sadat mi chiede ripetutamente di esercitare maggiori pressioni su Israele, ma le vorrei far sapere che semplicemente non posso farlo perché ciò sarebbe per me un suicidio politico”. “Suicidio politico” che tra l’altro non venne eluso nelle elezioni del 1980, quando una massiccia fetta del voto ebraico, tradizionalmente fedele ai democratici, migrò nelle urne del futuro presidente Reagan. A Carter, con tutta evidenza, non venne perdonato il fatto di aver inserito ostinatamente nel vocabolario del conflitto l’espressione “Palestinian rights”, anche se essi vennero puntualmente messi da parte in sede negoziale.
Uno dei vizi endemici che si insinua nei tentativi di risolvere il conflitto che affligge la “Palestina” risiede, a parere di chi scrive, anche in quella che si può definire la “doppia morale” dell’Occidente, e degli Stati Uniti in prima linea, verso gli atti di violenza israeliani e palestinesi, premessa l’evidente sproporzione, in termini di potenziale militare, tra i due. Quando il 20 maggio del 1990 un soldato israeliano allineò sette braccianti palestinesi e li uccise tutti e sette con una mitraglietta, l’evento fu trattato con accuratezza dai media e la stampa internazionale, ma senza mai usare la parola “terrorista”. Lo definirono piuttosto l’atto di uno “squilibrato” e parlarono di “tragedia”, in quel processo di “spersonalizzazione” dell’atto violento, quando questo è commesso da un israeliano. Stesso trattamento dell’evento ebbe l’uccisione, il 25 febbraio del 1994, di ventinove – ed altrettanti uccisi fuori la Moschea dai soldati israeliani – fedeli palestinesi raccolti nella Moschea della Tomba del Patriarca di Hebron, per mano di Baruch Goldstein, un ufficiale della riserva israeliana. Clinton liquidò l’avvenimento come “una terribile tragedia”, spersonalizzando l’autore israeliano del massacro, e scindendo dunque quest’ultimo dalla responsabilità di Israele. Per lo stesso motivo, ad esempio, l’ultimo bombardamento israeliano nella Striscia di Gaza, che ha causato la morte di 1400 palestinesi, tra cui circa 400 bambini, non è mai stata definita una “azione terroristica” dal governo americano, ma una “operazione militare contro obiettivi terroristici”. Anche queste storture semantiche costituiscono un ostacolo enorme alla risoluzione del conflitto.
Una politica, quella nordamericana, certamente non equidistante, in particolare in merito all’altro attore, il popolo palestinese, e fortemente condizionata dalle varie componenti - tra cui la “Lobby ebraica” sopra richiamata – che danno forma alla special relationship tra Washington ed il governo israeliano. Anche nei momenti di maggiore freddezza tra Stati Uniti ed Israele – che ci sono ancora oggi, ad esempio riguardo la sfrenata costruzione degli insediamenti in Cisgiordania e a Gerusalemme Est – mai si sono realizzate delle coerenti azioni politiche poste in essere dalla Casa Bianca, come potrebbe essere la chiusura dei rubinetti degli aiuti. La lampante asimmetria delle forze in gioco nel conflitto israelo-palestinese, ed in ciò gli Stati Uniti giocano un ruolo determinante, in questo senso, e non solo a livello militare, vizia alla radice qualsiasi tentativo di pace.
* Diego Del Priore, dottore in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”.