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L’inganno Khodorkovsky

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Fonte: http://www.pinoarlacchi.it/it/articoli/347-linganno-khodorkovsky

Non mi straccio le vesti sul caso Khodorkovsky, e chi lo considera un martire delle libertà è vittima di una disinformazione clamorosa. E di una Babele politico-mediatica che finisce col rendere tutti più ignoranti. Sakineh, Battisti, Khodorkovsky: che differenza c’è? Credo di saper riconoscere un mafioso, e posso affermare che Khodorkovsky è stato un mafioso tra i più pericolosi. Che invece di pentirsi, restituire il bottino nascosto nei paradisi fiscali e chiedere perdono alle sue vittime, finanzia campagne di pubbliche relazioni che hanno raggiunto il surreale, accostandolo a Sacharov, Gandhi, e tra un po’ anche a Gesù Cristo. Quando si tratta, al massimo, di un oligarca sconfitto in una guerra di potere, e imprigionato con procedure discutibili.

Non mi straccio le vesti anche perché ho conosciuto la Russia degli anni 90: uno stato della mafia i cui massimi architetti e beneficiari sono stati proprio Khodorkovsky e i suoi compari oligarchi. Uno stato edificato con l’amorevole assistenza della finanza occidentale, che ha colto l’occasione della caduta del comunismo per costruirci sopra una montagna di soldi. Sono state infatti le banche europee ed americane che hanno ricettato i soldi della mafia russa contribuendo a portare un grande paese sull’ orlo del disfacimento. Ma la festa è finita con l’arrivo di Putin, ed è questa la soluzione dell’ “enigma” del 70% dei suoi consensi attuali. E della sua impopolarità presso il grande business anglo-americano ed i loro giornali, innamoratisi all’ improvviso di Khodorkovsky.
L’ élite criminale più vicina agli oligarchi amici di Yeltsin è quella dei boss di Cosa Nostra. Stessa ferocia, stessa protervia politica, mascherata da un grado di ricchezza, istruzione e status sociale di gran lunga superiori. Gli ex-caprai di Corleone non hanno mai neanche sognato i livelli di agiatezza e sofisticazione dei magnati criminali russi.
Il capo di Cosa Nostra russa era Boris Berezovsky, quello che viene intervistato dai giornali italiani nei panni di un rifugiato politico in Inghilterra. Un uomo capace di ordinare un assassinio al mattino, e di andare poi a cena con un George Soros determinato a redimerlo (vedi resoconto di Soros a pag. 223 del mio volume “La mafia imprenditrice”).
Berezovsky era un matematico, membro dell’ Accademia russa delle scienze, e lo stesso Khodorkovsky era un importante dirigente di partito. Gli altri boss erano tutti personaggi noti al grande pubblico perché parlamentari, imprenditori, sindaci, proprietari di giornali e televisioni nazionali.
Senza questo livello intellettuale, l’oligarchia criminale russa non avrebbe potuto escogitare quella che è a tutt’oggi la più grande frode della storia. Nata da una alleanza tra i “magnifici 7” stipulata a Davos, durante il World Forum annuale, per sostenere Yeltsin alle elezioni, questa truffa ha consegnato nelle loro mani quasi metà della ricchezza della Russia. Il maxiraggiro venne chiamato “prestiti contro azioni” e funzionò così.
Alla fine del 1995 il governo russo, invece di chiedere prestiti alla Banca Centrale, si rivolse alle banche degli oligarchi. Come garanzia per il credito concesso, queste banche avevano ricevuto in custodia temporanea i pacchetti azionari di maggioranza delle più grandi imprese del paese. Un anno dopo, proprio per consentire agli oligarchi di tenersi le azioni, il governo decise di non restituire i prestiti. Così Berezovsky ed i suoi, dopo aver prestato 110 milioni di dollari, si ritrovarono in mano il 51% di un’azienda, la Sibneft , che valeva 5 miliardi di dollari. Il gruppo Menatep, guidato da Khodorkovsky, pagò 160 milioni per ottenere il controllo della Lukoil, una compagnia petrolifera che valeva più di 6 miliardi di dollari. La Banca di un altro amico degli amici, Potanin, spese 250 milioni di dollari per impadronirsi della Norilsk Nichel, leader mondiale della produzioni di metalli, il cui valore si aggirava sui 2 miliardi di dollari.
La frode dei “prestiti contro azioni” è il vizio fondante del capitalismo russo. Ha contribuito al consolidamento di una oligarchia politico-mafiosa che ha generato il più grande disastro sofferto dalla Russia dopo l’ invasione nazista del 1941. Il PIL della Russia si è dimezzato in pochi anni. I risparmi di tutta la popolazione sono evaporati a causa della svalutazione selvaggia del rublo. La povertà è passata, negli anni 90, dal 2 al 40% della popolazione. L’età media si è abbassata di 5 anni a causa del ritorno di malattie scomparse. Per lunghi periodi lo stato non ha potuto pagare pensioni e stipendi, mentre nel paese scorazzavano bande delinquenti di ogni risma.
La plutocrazia fiorita sotto Yeltsin, d’altra parte, non era il capitalismo primitivo che precede quello pulito. Era un sistema di potere senza futuro, che per sopravvivere doveva continuare a rubare e corrompere. Il suo tallone d’Achille era l’assenza di una vera protezione legale.
Il timore di venire espropriati da un governo non amico, che avrebbe potuto dichiarare illegittime le privatizzazioni, e la paura degli oligarchi di essere a loro volta derubati da altri ladri, hanno avuto due conseguenze. Li hanno spinti in primo luogo a portare fuori dalla Russia il loro malloppo. E fin qui tutto bene, perché oltreconfine c’erano spalancate le grandi fauci delle banche svizzere, inglesi ed americane (vedi scandalo Bank of America e simili), ben liete di riciclare i loro beni. Ma i problemi sono nati nel momento in cui i mafiosi russi, per garantirsi l’impunità, sono stati costretti a perpetuare il loro patto scellerato con la politica.
Nel 1999 era arrivato al potere un uomo dei servizi segreti, gradito sia a Yeltsin che agli stessi oligarchi, e da loro considerato uno dei tanti primi ministri da sostituire, all’ occorrenza, dopo un paio di mesi. Ma Vladimir Putin aveva una particolarità. Dietro le sue spalle c’erano anche quei pezzi del KGB che non erano confluiti nel calderone criminale della Russia postcomunista: pezzi ormai marginali di uno stato in via di dissoluzione, ma ancora in vita, e comunque depositari di un senso della nazione profondamente sentito dai cittadini russi.
Facendo leva su queste zattere alla deriva, e sull’immenso risentimento collettivo contro Yeltsin e i boss della mafia, Putin prese rapidamente le distanze dai suoi sostenitori. Dopo pochi mesi di governo, egli fu in grado di mettere gli oligarchi davanti a un’alternativa: il rientro nei ranghi del potere finanziario, senza alcuna pretesa di intervento nella politica, in cambio della rinuncia del governo a recuperare il maltolto delle privatizzazioni; oppure la guerra totale, con rinazionalizzazione dei beni pubblici razziati e con la fine dell’ impunità per i crimini commessi dai capibastone (stragi, omicidi, furti, truffe, sequestri, estorsioni, evasioni fiscali in abbondanza).
Furono avviati anche gli opportuni contatti con l’ufficio che ho diretto alle Nazioni Unite, e che aveva appena lanciato un’iniziativa per la confisca, per conto dei governi danneggiati, dei beni di provenienza illecita riciclati nei centri finanziari del pianeta.
Di fronte alla proposta di Putin, il fronte mafioso si spaccò. Alcuni oligarchi l’ accettarono. Altri la irrisero, compiendo così il fatale errore di sottovalutare la forza dell’ ex dirigente del KGB, nel frattempo diventato Presidente. Per evitare vari mandati di cattura, Berezovsky si rifugiò nel Regno Unito, da dove finanzia attività antirusse con il beneplacito dei servizi segreti di Sua Maestà. Khodorkovsky pensò invece di sfidare Putin politicamente, finanziando partiti ostili a quest’ultimo, nella speranza di rovesciarlo.
Gli è andata male. Khodorkovsky è molto impopolare in Russia, per le ragioni che abbiamo spiegato. Ed i suoi attacchi hanno perciò sortito l’effetto di rafforzare e non di indebolire Putin.
Ma il soggetto è ancora un uomo ricco, con molti soldi all’estero. Con i quali può pagare le fatture di illustri lobbisti e di rinomate società di pubbliche relazioni. Come sanno vari parlamentari europei miei colleghi, i più sprovveduti dei quali si prestano a campagne pro-Khodorkosky con un impegno degno di miglior causa.

7 gen. 2011

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