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Nucleare sì, nucleare no: gli effetti delle radiazioni

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In un precedente articolo, ci siamo concentrati sui problemi del settore elettrico italiano (1); la domanda che ci siamo posti era: quale sarà il contributo dell’ energia nucleare nel farvi fronte? Per rispondere, abbiamo affrontato il lato puramente economico del problema.

Ciò che più preoccupa l’opinione pubblica, però, sembra essere il rischio che questo tipo di produzione comporta per la salute umana. Per completezza, non si poteva non dedicare un contributo a quest’intricata questione.

Le fonti ufficiali: istruzioni per l’uso

Quando si ha a che fare con un problema così controverso, e disponendo di conoscenze limitatissime, l’unica cosa da fare è rivolgersi alle fonti ufficiali: agenzie ONU, OECD, Commissione Europea.

È all’interno di quest’ultima, infatti, che è stata portata avanti una delle più accreditate e imponenti iniziative in questo senso: il progetto ExternE, Esternalità dell’Energia, uno studio che mira ad analizzare gli effetti della produzione energetica, sull’ambiente, sul surriscaldamento globale, sulla salute umana. Anche i documenti pubblicati in seno all’OECD fanno riferimento a quest’ultimo.

La figura 1 è tratta da uno studio sull’energia nucleare pubblicato dalla NEA (Nuclear Energy Agency, facente capo all’OECD). L’impatto dell’inquinamento è misurato in termini di anni di vita persi, e la generazione elettronucleare è confrontata con altri sette tipi di impianti di produzione elettrica. Questo calcolo sembra andare a favore del nucleare, nettamente meno dannoso delle altre tecnologie.

Figura 1 Mortalità associata all’attività ordinaria in Germania

Questo risultato sembra non convincere gli antinuclearisti. Per capire perché, siamo risaliti direttamente alla fonte, cercando di capire anzitutto le modalità di analisi che hanno portato a questa conclusione.

L’approccio analitico

La metodologia utilizzata nell’ambito del progetto ExternE è il risultato della combinazione di due approcci diversi: l’analisi del ciclo di vita (Life Cycle Assessment, LCA) e l’approccio del sentiero di impatto (Impact Pathway Approach).

In un’ottica di LCA, lo studio non si limita ad analizzare gli effetti prodotti dalle operazioni che avvengono all’interno dell’impianto nel momento in cui si produce elettricità; l’analisi, al contrario, tiene conto di tutte le fasi relative alla costruzione dell’impianto, alla produzione del combustibile e all’eventuale smaltimento, all’estrazione delle materie prime, e così via.

Per la catena di energia nucleare, in particolare, si tiene conto di otto fasi principali: estrazione dell’uranio; macinazione; conversione; arricchimento; fabbricazione del combustibile; produzione di elettricità; smaltimento dei rifiuti a livello di bassa e media attività; riprocessamento e smaltimento dei rifiuti ad alto livello di attività o smaltimento del combustibile esaurito. La valutazione tiene conto anche della costruzione di impianti e infrastrutture, del funzionamento e dello smantellamento, e delle fasi intermedie di trasporto delle materie radioattive e dei rifiuti.

Solo in un secondo momento, si procede ad elencare i possibili fattori di impatto sull’ambiente o sulla salute umana (“fattori di stress”), come ad esempio emissioni nell’atmosfera, produzione di rifiuti solidi, rilascio termico, uso del suolo, etc…

In generale, viene analizzato il rilascio di sostanze (ad esempio, le polveri sottili) o energia (radiazioni, rumore) nell’acqua, nell’aria, e nel suolo. Questi tre elementi sono considerati dei media, poiché le sostanze e l’energiaviaggiano” attraverso di essi, raggiungendo l’uomo sia in modo diretto (ad esempio, con l’inalazione) che indiretto, attraverso al catena alimentare. L’approccio del sentiero di impatto consiste appunto nel “seguire” il percorso di questi materiali attraverso l’ambiente, eventualmente grazie a modelli preesistenti.

Dal calcolo della concentrazione degli agenti inquinanti nella regione, quindi, si risale ad una stima del’esposizione del pubblico ai fattori di stress; infine si passa a calcolare i danni che ne conseguono.

Quest’ultimo passaggio è effettuato tramite l’utilizzo di una funzione dose-risposta, ovvero di una funzione che associa la quantità di un agente inquinante che raggiunge il recettore (la popolazione) all’impatto fisico su quest’ultimo (ad esempio, il numero di morti).

Per ottenere dei risultati affidabili, quindi, è necessario che questa funzione sia nota per tutti gli agenti inquinanti presi in considerazione. Condizione, purtroppo, non sempre vera.

Anzitutto, l’entità dei danni varia al variare di alcuni fattori specifici del sito, come ad esempio il tempo di esposizione, ma soprattutto la densità di popolazione attorno al sito.

Altre difficoltà possono riguardare la scelta della scala geografica e temporale, la scarsa quantificabilità di alcuni effetti, o i metodi utilizzabili per la stima.

Generalmente, inoltre, non è possibile effettuare un’osservazione degli effetti senza una considerevole quantità di emissioni. Sorge quindi il dubbio che esista una soglia critica, al di sotto della quale non esistano conseguenze per l’organismo, oppure che al contrario la relazione tra danno e assorbimento sia più simile ad una funzione lineare. Per il nucleare,

si utilizza un modello di relazione lineare senza soglia critica: si assume che l’effetto biologico sia perfettamente proporzionale alle radiazioni a cui si è stati esposti.

Il calcolo in pratica

All’interno del progetto ExternE, si è scelto di analizzare, per ogni fase della catena energetica, una specifica tecnologia ed uno specifico sito. Per il nucleare, in particolare, ci si è rivolti agli impianti francesi, con alcune astrazioni di fondo.

Per il calcolo dei danni, ad esempio, sono stati utilizzati i coefficienti di rischio riconosciuti dalla Commissione Internazionale per la Protezione Radiologica (International Commission on Radiological Protection, ICRP).

Per lo smaltimento dei rifiuti radioattivi di alto livello, inoltre, sono state effettuate delle ipotesi generiche, in quanto nessuno di questi impianti è attualmente in funzione in Europa. Ancora, per la stima degli effetti degli incidenti che potrebbero verificarsi durante il trasporto, l’analisi è stata circoscritta al rilascio delle sostanze più pericolose.

Per i dati mancanti, infine, si è preferito ricorrere a dati generici forniti dal Comitato Scentifico sugli Effetti delle Radiazioni Atomiche delle Nazioni Unite (United Nations Scientific Committee on the Effects of Atomic Radiation, UNSCEAR, 1993).

Per calcolare gli effetti dell’assorbimento delle radiazioni, si tiene conto di effetti radiologici come il cancro e le patologie ereditarie. Gli indicatori utilizzati sono le morti, le giornate di lavoro perse, le disabilità permanenti.

I risultati

L’assorbimento di radiazioni da parte dell’organismo è misurato in termini di dose equivalente o di intensità di dose equivalente.

La dose equivalente è una grandezza fisica che misura gli effetti biologici e il danno provocato dall’assorbimento di radiazioni su un organismo o su un determinato organo o tessuto. Si tratta di misurare la dose assorbita e di assegnarvi un peso a seconda delle conseguenze per l’organismo, che variano a seconda del tipo di radiazione in questione.

L’intensità di dose equivalente, invece, è definita come la dose equivalente ricevuta nell’unità di tempo (o tasso di dose), ed è misurata in sievert al secondo (Sv/s). Infine, quando si utilizza un modello lineare senza soglia critica, la misura della dose collettiva di una popolazione è il man-sievert (man.Sv).

La dose collettiva totale imputata agli impianti francesi ammonta a 13 man.Sv per un TWh. Il 93% di questa dose si riversa globalmente, ovvero oltre i 1000 km, ipotizzando che la popolazione mondiale si mantenesse costante sui 10 miliardi di persone, per un periodo di 100.000 anni. Il 4% della dose è assorbita dai lavoratori, mentre il 2% colpisce il pubblico locale (a meno di 100 km di distanza) e l’1% il pubblico regionale (fra i 100 e i 1000 km di distanza).

Al netto della dose globale, l’assorbimento di radiazioni da parte del pubblico locale (25%), regionale (19%), e dei lavoratori (56%) ammonta a 0,9 man.Sv per un Twh.

In termini più pratici, questi dati si tradurrebbero, per ogni TWh prodotto, in: 0,65 tumori mortali: 1,57 tumori non fatali; 0,13 gravi effetti ereditari, registrati su tutta la popolazione mondiale. Per i lavoratori del settore nucleare, invece, si stima che la produzione di 1 TWh porterebbe a 0,02 morti, 0,96 disabilità permanenti e 296 giornate lavorative perse.

Per farsi un’idea delle dimensioni del problema, la produzione di energia nucleare nel mondo, nel 2009, ammontava a 2558 TWh, di cui 391,7 in Francia. Eseguendo dei semplici calcoli, si può concludere che, nello stesso anno, fra i lavoratori del settore nucleare francese dovrebbero essere state registrate circa 7 o 8 morti. Ma, stando ai calcoli effettuati dagli studiosi coinvolti nel progetto, l’impatto sui lavoratori sarebbe dovuto in misura maggiore a incidenti di tipo non radiologico.

Al di là della teoria: le statistiche

Per quanto rassicuranti, queste stime non convincono fino in fondo. L’approccio utilizzato richiede di effettuare numerose astrazioni, risente della mancanza di dati e di informazioni precise. Di fronte a queste difficoltà, è naturale chiedersi se non si farebbe prima ad effettuare un semplice calcolo statistico delle manifestazioni tumorali nelle popolazioni insediate intorno alle centrali. Studi di questo tipo esistono, ma finora non sono stati ritenuti statisticamente significanti.

Uno dei primi esperimenti in tal senso, ad esempio, si ebbe nel Regno Unito alla fine del 1980: questo studio rilevò un’aumentata incidenza di leucemie infantili nei pressi degli impianti nucleari. Il Comitato sugli Aspetti Medici delle Radiazioni nell’Ambiente (Committee on the Medical Aspects of Radiation in the Environment, COMARE), però, concluse che l’esposizione alle radiazioni non fosse sufficiente a produrre danni di tale portata.

Mancanza di significatività, però, non vuol dire mancanza di correlazione: significa semplicemente che la correlazione potrebbe essere dovuta (con probabilità del 5-10%) a fattori casuali.

Nel 2002, la German radiation Protection Agency, commissionò uno studio sui tumori infantili nei pressi delle centrali nucleari, lo studio KiKK (Kinderkrebs um Kernkraftwerke).

La relazione finale, presentata nel 2008, rivelò che, nei bambini che vivevano a meno di 5 Km dalle centrali, si era registrato un aumento di 1,6 volte nei tumori “solidi” (non ematici, che colpiscono organi solidi) ed un aumento di 2,2 volte nelle leucemie. Uno studio ritenuto significativo, soprattutto data l’ampiezza del campione (16 reattori e 2185 patologie).

I risultati del KiKK furono irrobustiti, inserendo nello studio i dati provenienti da 17 articoli precedenti. In questi studi venivano analizzate le popolazioni attorno a 136 siti nucleari nel Regno Unito, in Canada, in Francia, negli Stati Uniti, in Germania, in Giappone e in Spagna. Nei bambini fino a 9 anni, i tassi di mortalità per leucemia registrati erano più alti

del normale, di circa il 5-24%. Nella relazione finale del KiKK, però, quest’ultima parte dell’indagine non venne citata.

Alcune possibili spiegazioni

Alla base dell’aumento del rischio di cancro potrebbero esservi almeno quattro fattori: irraggiamento diretto (raggi gamma e neutroni) dal reattore; radiazioni elettromagnetiche provenienti dalle linee di alimentazione in prossimità delle centrali; emissione di vapori dalle torri di raffreddamento; rilascio di sostanze radioattive nell’ambiente (ad esempio, il radiocarbonio).

I risultati dello studio sono stati sottoposti ad un test statistico, in modo da confermare la relazione di causalità fra la vicinanza alle centrali e le manifestazioni tumorali. Il test ha ottenuto un risultato positivo.

Resta comunque aperto il problema della coerenza con lo conoscenze esistenti: tuttora, si ritiene che i rilasci di radioattività siano troppo bassi per causare un così alto innalzamento del rischio di cancro. È per questo motivo che, nella comunità scientifica, la questione rimane aperta.

Così facendo, però, si respinge la possibilità che le stime in questione siano semplicemente errate, incerte, o inaffidabili.

All’indomani della pubblicazione del KiKK, infatti, sono state avanzate una serie di ipotesi che ne spiegassero i risultati. Una di queste riguarda l’assorbimento delle radiazioni nel periodo della gravidanza. Le pubblicazioni ufficiali in materia di radioprotezione, infatti, non tengono in considerazione i rischi a cui sono sottoposti specifici organi e tessuti embrionali durante la gestazione.

Oltre ad un’elevata incidenza di tumori infantili, infatti, il KiKK ha rivelato un aumento dei cancri embrionali: la maggior parte delle emissioni radioattive sono costituite da radiocarbonio e trizio; queste sostanze, una volta rilasciate nell’ambiente, si combinano con gli atomi stabili di idrogeno e carbonio. L’ interazione con le cellule prodotte nella formazione degli embrioni può portare a formazioni tumorali, anche dopo qualche anno dalla nascita. È stato inoltre stimato che l’assorbimento del trizio durante la gravidanza porta ad una concentrazione di questa sostanza nel feto più alta che nel corpo della madre, di circa il 60%.

Tirando le somme…

Tutti questi elementi suggeriscono che sia necessario riconsiderare le tradizionali procedure di valutazione dei rischi. Un dibattito scientifico serio, che tenga conto delle nuove scoperte, potrebbe aiutare ad evitare arroccamenti ideologici in entrambi gli schieramenti, formando un’opinione pubblica critica e solidamente ancorata alla realtà. Allo stesso tempo, spingerebbe verso una politica energetica più responsabile, che tenga in conto tutte le variabili del caso, e che si connetta alle preferenze della popolazione.

La scelta nucleare deve basarsi su una confronto veritiero dei costi ambientali, che, viste le controversie tuttora esistenti nella comunità scientifica, non è ancora stato effettuato.

Vale la pena di ricordare che le valutazioni di politica energetica sono strettamente legate alle caratteristiche del territorio: i danni provocati da una centrale nucleare saranno ben differenti a seconda che questa venga situata vicino ad una grande città o in una zona semidisabitata.

Allo stesso tempo, una situazione di limpidezza istituzionale, di attivismo nella società civile, di controllo della corruzione, sono caratteristiche irrinunciabili per una corretta gestione dei rischi.


1) http://www.eurasia-rivista.org/7167/l’assalto-italiano-alle-centrali-nucleari-la-fiera-delle-perplessita

Bibliografia

Risks and benefits of Nuclear Energy, OECD (2007), Parigi

Nuclear Electricity Generation: What Are the External Costs? OECD (2003), Parigi

ExternE Externalities of Energy – Methodology – 2005 Update, Commissione europea, Direzione Generale per la Ricerca (2005), Lussemburgo

ExternE Externalities of Energy – Vol.5 – Nuclear, Commissione europea, Direzione Generale XII Scienza, Ricerca e Sviluppo (1995), Lussemburgo

Ian Fairlie (2009), Childhood cancer near nuclear power stations, www.ehjournal.net/content/8/1/43


*Federica Nalli è dottoressa in Scienze Politiche (Università degli studi di Firenze)


Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’Autrice e potrebbero non coincidere con quelle di “Eurasia”

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