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Il “grande gioco” dell’energia in Eurasia

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Nelle ultime settimane all’interno della stampa generalista italiana sta tenendo banco una questione che, fino a poco tempo fa, era appannaggio esclusivo degli “addetti ai lavori”: la geopolitica dell’energia nel continente eurasiatico, ed in particolare la connessione energetica russo-europea.

Per gentile concessione dell’editore Fuoco, pubblichiamo di seguito alcuni estratti dall’opera La sfida totale. Equilibri e strategie nel grande gioco delle potenze mondiali, firmata dal nostro redattore Daniele Scalea. Ricordiamo che tale opera rientra nell’elenco dei libri che si possono ricevere in regalo abbonandosi a “Eurasia” entro il 15 gennaio 2011 (cliccare qui per maggiori informazioni).

La sfida totale è uscita nel maggio scorso, dunque alcune delle cifre fornite sono state nel frattempo superate da nuove stime. In ogni caso, il quadro generale ed i progetti in essere sono ancora quelli.

I brani riportati di seguito sono tratti dalle pp. 39, 46-51, 92-95.


L’8 dicembre i presidenti di Russia, Ucraìna e Bielorussia, riuniti a Brest, proclamarono la dissoluzione dell’Unione Sovietica, che Gorbačëv fu costretto ad accettare suo malgrado. Da un grande impero eurasiatico erano sorti 14 Stati nazionali minori: l’unità dell’Heartland era quasi del tutto perduta.

Mai occasione fu più propizia per un attacco diretto al cuore del continente eurasiatico da parte della talassocrazia atlantica, nel tentativo di neutralizzare o addirittura dominare l’Heartland.

[…]

Sovversione politica ed espansione militare (che non ha riguardato unicamente l’Europa, come si vedrà) sono solo due dei quattro elementi costituenti l’attacco statunitense all’Heartland. La terza direttrice d’attacco, come già accennato, è diretta alle risorse energetiche delle repubbliche post-sovietiche. (La quarta, la ricerca della supremazia nucleare, sarà trattata nel prossimo capitolo).

La Russia, con l’estrazione di circa 9,8 milioni di barili di petrolio al giorno e 662 miliardi di metri cubi di gas naturale l’anno, è il secondo maggiore produttore mondiale di petrolio ed il primo di gas.

Le sue riserve provate di gas sono le più vaste del mondo, contando per il 32% del totale; quelle di petrolio sono le ottave al mondo, ossia il 12% del totale, ma se si parla di riserve “probabili” (ossia al 50% recuperabili alle condizioni economiche e tecnologiche esistenti) s’arriva a ben il 43%.

Questi dati, anche senza bisogno di richiamare la presenza delle seconde maggiori riserve mondiali di carbone, fanno della Russia la principale potenza “energetica” del globo.

Ma c’è di più. La Russia ha ereditato dall’URSS una collocazione particolarmente favorevole delle condotte energetiche nell’Heartland. Anche alcune ex repubbliche sovietiche del Caucaso e dell’Asia Centrale sono produttrici d’idrocarburi, ma tutti gli oleodotti e gasdotti costruiti in epoca sovietica passano per il territorio russo con direzione l’Europa.

L’Azerbaigian produce 875 mila barili al giorno ed ha le diciannovesime riserve provate di petrolio; la produzione di gas ammonta a 16,2 miliardi di metri cubi l’anno.

Il Kazakistan produce quotidianamente 1,4 milioni di barili di petrolio ed ha le undicesime maggiori riserve provate al mondo; la produzione di gas è di 33 miliardi di mc l’anno e le riserve provate sono le tredicesime al mondo.

Il Turkmenistan è un produttore di petrolio piuttosto debole (190 mila barili al giorno) ma è il settimo maggiore esportatore di gas, con una produzione d’oltre 70 miliardi di mc.

Similmente, l’Uzbekistan ha poco petrolio (84 mila barili al giorno) ma è il quindicesimo produttore mondiale di gas con 68 miliardi di mc.

Tra i paesi caucasici e centrasiatici ex URSS, solo Armenia, Georgia, Kirghizistan e Tagikistan sono del tutto o quasi privi d’idrocarburi.

Il vantaggio per la Federazione Russa non è solo economico. Rappresentare l’hub energetico dell’intero Heartland conferisce un’importante leva geostrategica sia sui paesi esportatori, sia su quelli importatori che da tale fulcro dipendono.

Se i paesi esportatori sono quelli dell’Asia Centrale, più l’Azerbaigian, l’acquirente è l’Europa. L’Unione Europea, nel suo complesso, produce 2 milioni e mezzo di barili di petrolio al giorno e più di 200 miliardi di mc di gas l’anno; tuttavia, consuma quotidianamente quasi 15 milioni di barili ed annualmente 517 miliardi di mc di gas.

Attualmente, l’Europa importa il 40% del gas ed il 33% del petrolio dalla Russia, che rappresenta, dunque, il suo principale fornitore energetico.

Germania, Italia e Francia sono i maggiori importatori d’idrocarburi europei, soprattutto di gas naturale, rispetto al quale rappresentano rispettivamente il secondo, il terzo ed il quarto maggiore acquirente mondiale (con 87, 75 e 37 miliardi di mc l’anno). Il risultato è che tra questi tre soggetti (Europa-Russia-Asia Centrale) si è creato un rapporto di solida interdipendenza (l’Europa dipende dalla Russia e dall’Asia Centrale per le forniture; la Russia dipende dall’Europa per la vendita e dall’Asia Centrale per la non concorrenza in campo energetico; l’Asia Centrale dipende dall’Europa per l’acquisto e dalla Russia per il transito) che suggerirebbe una politica reciprocamente amichevole.

Washington ha immediatamente cercato d’inserirsi in tale connessione energetica col duplice scopo di sottrarre l’Asia Centrale all’influenza di Mosca e di ridurre l’interdipendenza russo-europea: il piano è quello di creare nuove rotte che dall’Asia Centrale giungano in Europa senza transitare per la Russia.

Il primo progetto è stato quello dell’oleodotto Bakù-Tblisi-Ceyhan (BTC), che dall’Azerbaigian raggiunge il Mediterraneo sulla costa turca passando per la Georgia. Il tragitto più breve per collegare Bakù a Ceyhan sarebbe stato passare per l’Armenia, ma Erevan ha pessimi rapporti con l’Azerbaigian a causa della regione contesa del Nagorno-Karabach; si è perciò optato per il transito attraverso la Georgia, per giunta più affidabile politicamente dalla prospettiva statunitense. Questa condotta, lunga 1768 chilometri e costata 4 miliardi di dollari, era intesa a trasportare non solo il petrolio azero, ma anche quello centrasiatico (tramite un’estensione sottomarina nel Mar Caspio, oppure portandolo in Azerbaigian con petroliere) scavalcando la Russia. La sua capacità attuale è di un milione di barili al giorno ed è già stata commissionata l’espansione a 1,2 milioni.

In realtà, dopo la sua entrata in funzione nel 2006 si è potuto notare come l’effetto geopolitico del BTC fosse stato fortemente sopravvalutato. Dei paesi centrasiatici solo il Kazakistan sfrutta il BTC, e limitatamente al giacimento petrolifero di Tengiz, la cui proprietà è al 75% statunitense. Non di meno, la maggior parte della produzione di Tengiz continua a passare per gli oleodotti russi.

Da alcuni anni è stato perciò lanciato un nuovo ed ancor più ambizioso progetto: il Nabucco, un gasdotto di 3300 chilometri tra Erzurum in Turchia e Baumgarten an der March in Austria, con transito per Bulgaria, Romania e Ungheria. Il consorzio costruttore Nabucco Gas Pipeline International GmbH è composto da una compagnia per ciascuno di questi cinque paesi, più la tedesca RWE; l’intero progetto è patrocinato dalla Commissione Europea ed ovviamente dagli USA – anche se i finanziamenti in denaro dovranno arrivare per lo più dall’Europa, circa 8 miliardi di euro. La conclusione del progetto è prevista per il 2014.

A Erzurum, però, non s’estrae il gas, e dunque il Nabucco necessiterà di un’ulteriore appendice e/o della connessione a condotte già esistenti per entrare in funzione.

Fonti primarie dovrebbero essere il Turkmenistan (10 miliardi di mc l’anno) e l’Azerbaigian (8 miliardi). Il gas turkmeno, per raggiungere Erzurum, richiederà, tuttavia, la costruzione d’almeno un gasdotto aggiuntivo: una condotta sottomarina trans-caspica, ritenuta di difficile realizzazione, oppure un gasdotto che transiti per l’Iràn, opzione quest’ultima sgradita a Bruxelles e Washington per ragioni politiche.

Il gas azero dovrebbe, invece, provenire dal giacimento di Sha Deniz, già connesso a Erzurum tramite il gasdotto che parte da Bakù e transita per Tblisi. Attualmente, esso produce 7 miliardi di mc, ma si prevede di farlo arrivare a 8 in tempo per l’appuntamento col Nabucco.

Il problema è che secondo le stime tale giacimento contiene tra i 50 ed i 100 miliardi di mc, sicché rischierebbe di esaurirsi tra i 6 e i 13 anni. Per questo il consorzio del Nabucco sta cercando ulteriori fornitori, in particolare l’Egitto (è già in corso la realizzazione d’un gasdotto fino alla Turchia) o l’Iràq (che rappresenta, però, un’incognita dal punto di vista della stabilità politica).

Siccome l’Asia Centrale è geograficamente più vicina all’Oceano Indiano che all’Europa, Washington non ha mancato di prendere in considerazione anche un’ulteriore ipotesi: creare una rotta alternativa nord-sud che, passando per Afghanistan e Pakistan, colleghi il Turkmenistan al mare aperto. Tale progetto è stato inizialmente portato avanti dalla compagnia petrolifera UnocalUnion Oil Company of California.

Il 12 febbraio 1998 John J. Maresca, funzionario della compagnia, lo descrisse davanti alla Commissione relazioni internazionali della House of Representatives, la camera dei deputati statunitense, lamentando, però, come il caos interno all’Afghanistan ne impedisse la realizzazione. Quell’anno, infatti, la Unocal si è ufficialmente ritirata dal progetto.

Nel 1997 in due occasioni rappresentanti dei Taliban, giunti al potere in Afghanistan, avevano visitato il quartier generale della Unocal in Texas, allora governato da George W. Bush. Secondo Julie Sirrs, ex analista della DIA (Defense Intelligence Agency – l’agenzia federale di spionaggio statunitense) che ha operato in Afghanistan, la Unocal avrebbe persino finanziato i Taliban nella speranza che s’instaurasse un governo forte nel paese, o almeno così le avrebbe rivelato Massud, il capo della resistenza anti-talebana.

Malgrado il ritiro ufficiale della Unocal dall’affare, tra luglio e agosto 1999 una dozzina di rappresentanti afghani, per lo più taliban, si trovavano nuovamente in visita negli USA.

Alcuni analisti sostengono perciò che una delle motivazioni dietro al conflitto afghano sarebbe proprio il tentativo di stabilizzare e controllare la regione per farvi transitare gl’idrocarburi centrasiatici, sottraendoli alla Russia.

Dopo l’occupazione dell’Afghanistan nel 2001 Washington ha posto a capo del paese Hamid Karzai, che secondo quanto riportato dalla stampa avrebbe in precedenza svolto almeno una consulenza per la Unocal, e nominato prima inviato speciale e poi ambasciatore in loco Zalmay Khalilzad, a sua volta ex dipendente della Unocal.

Il 27 dicembre 2002 i capi di governo di Afghanistan, Turkmenistan e Pakistan hanno ufficialmente siglato un accordo per la costruzione dell’agognato gasdotto Trans-Afghanistan Pipeline (TAP): si prevede che andrà dal giacimento di Dauletabad in Turkmenistan a Fazilka, cittadina indiana prossima al confine pakistano (Nuova Delhi si è unita al progetto nel 2008), per un percorso totale di 1680 chilometri, una capacità iniziale di 27 miliardi di metri cubi l’anno ed un costo stimato d’oltre 7 miliardi e mezzo di dollari per completarlo nel 2014.

La Unocal ha smentito d’essere coinvolta nel progetto, ma è bene ricordare che, nel marzo 2005, la Camera dei Rappresentanti statunitense ha bloccato l’acquisizione della Chinese National Offshore Oil Corporation (CNOOC) che offriva per l’affare tra i 16 ed i 18 miliardi di dollari.

[…]

Numerosi osservatori – soprattutto occidentali ma anche russi – ritengono che l’OCS [Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, ndr] stia in ultima istanza danneggiando la Russia. Essi sostengono che, nel tentativo di tenere fuori dalla regione gli USA, Mosca stia regalando l’Asia Centrale alla Cina. Costoro citano i numerosi accordi bilaterali stretti da Pechino con paesi centro-asiatici per riceverne gl’idrocarburi tramite condotte che, ovviamente, non attraversano la Russia.

Nel dicembre 2009 è stato inaugurato il gasdotto Turkmenistan-Uzbekistan-Kazakistan-Cina: 1833 km (senza considerare la parte all’interno del territorio cinese) con una capacità iniziale di 40 miliardi di metri cubi l’anno, ma che per il 2012 dovrebbe raggiungere i 150 miliardi per un costo finale di 7,3 miliardi di dollari.

L’Uzbekistan e il Kazakistan non si limiteranno a prestare il proprio territorio per farvi transitare il gasdotto, ma quando sarà a pieno regime lo utilizzeranno a propria volta per convogliare gas alla Cina.

Le mosse di Pechino stanno veramente tagliando fuori la Russia dall’Asia Centrale? In realtà, anche Mosca continua a vendere gas e petrolio alla Cina, costruendo nuove condotte verso l’ex “Impero di Mezzo”. Anzi, gli analisti notano che la Russia potrà allacciarsi al nuovo gasdotto centrasiatico per esportarvi il gas naturale prodotto nella Siberia Occidentale, che oggi ha difficoltà ad essere inviato in Cina, e perciò si convoglia verso l’Europa. L’Asia Centrale è troppo vicina alla Cina, e la Cina è troppo assetata d’energia, perché Mosca possa pensare di mantenere il monopolio del transito energetico verso oriente; ma può fare buon viso a cattivo gioco e consolarsi vendendo essa stessa i propri idrocarburi a Pechino. Inoltre, il Cremlino sa di non poter soddisfare contemporaneamente le esigenze energetiche e dell’Europa e della Cina, e sta concentrando i propri sforzi soprattutto sulla prima. Mantenere lo stretto legame d’interdipendenza Russia-Europa è prioritario per Mosca, perché esso garantisce relazioni politiche amichevoli che altrimenti sarebbe arduo ottenere. Nel momento in cui Bruxelles, su impulso degli USA, cerca convulsamente di “diversificare” le proprie fonti energetiche, non è forse un vantaggio per la Russia che i bacini alternativi di fornitura individuati dall’UE – e dunque potenziali competitori di Mosca – si orientino verso est anziché verso occidente? È proprio quanto sta accadendo.

La Russia non è disturbata dalle nuove condotte Asia Centrale-Cina, perché quanto più i paesi centroasiatici esportano verso la Cina – la cui domanda è in grado d’espandersi con costanza ancora per molti anni, così da assorbire forse l’intera offerta della regione – tanto meno lo faranno verso l’Europa, e quel poco che c’è continuerà a transitare per le condotte sul territorio russo senza costruirne di nuove e costosissime.

Il gasdotto Turkmenistan-Cina, per molti versi, sembra neutralizzare il progettato Nabucco. A meno che il Nabucco s’orienti ad acquistare il gas dall’Iràn, cosa che porrebbe un serio dilemma strategico agli atlantisti. Ma forse la Russia riuscirà ad evitar loro questo grattacapo. Gazprom preme perché si realizzi il gasdotto Iràn-Pakistan-India, che dunque indirizzerà verso il secondo grande “assetato” d’Oriente la produzione persiana. Gli USA, al contrario, cercano d’indurre Nuova Delhi a rinunciare a tale progetto, anche concedendo una generosa cooperazione nel campo del nucleare civile, come fatto da Bush nel 2005. La visita di Putin in India, nel marzo 2010, ha rilanciato la tradizionale amicizia tra i due paesi, anche da un punto di vista pratico e materiale (in particolare con accordi sul nucleare), e potrebbe così sbloccare la situazione. Nel frattempo, però, Iràn e Pakistan stanno portandosi avanti senza Nuova Dehli: il 16 marzo 2010 hanno siglato l’accordo per la costruzione delle rispettive tratte del gasdotto. Islamabad ha chiesto a Pechino di sostituirsi all’India, e per ora i Cinesi non hanno né accettato né rifiutato.

La Russia non si limita tuttavia a “dirottare” altrove le potenziali fonti alternative per l’Europa, ma potenzia il proprio sistema di consegna. Oggi oleodotti e gasdotti transitano per i paesi della “Nuova Europa” che, anche quando non creano problemi ed interruzioni al traffico – come invece fatto da Kiev negli ultimi anni – costituiscono pur sempre una presenza minacciosa, in quanto le rotte energetiche russo-europee risultano controllate da stretti alleati di Washington. Non si scordi che la Casa Bianca sta progressivamente estendendo il proprio controllo anche sul secondo grande fornitore energetico dell’Europa, ossia il Vicino Oriente. Mentre i media denunciano una presunta “dipendenza” unilaterale dell’Europa dalla Russia che farebbe presagire la possibilità per Mosca di ricattarci (in realtà si tratta di interdipendenza, in quanto la Russia ha bisogno di vendere il gas tanto quanto l’Europa ha necessità di comprarlo), la vera minaccia alla sicurezza energetica del vecchio continente è rappresentata dal monopolio statunitense sulle nostre fonti energetiche o, nel caso del gas russo, sulle rotte attraverso cui esse giungono in Europa. In questo caso non si tratta più di interdipendenza, in quanto gli USA controllano risorse altrui che, ipoteticamente, potrebbero permettersi anche di non vendere se ciò rispondesse al loro interesse strategico.

Fortunatamente la Russia ed alcuni paesi europei stanno impegnandosi a creare nuovi canali di transito energetico che libereranno l’Europa Occidentale dallo spettro dei “sabotaggi” ucraìni e del monopolio statunitense. Mosca pare aver imparato bene “l’arte del bypass” – proposta a ripetizione negli ultimi due decenni dagli USA per tagliare fuori la Russia dall’esportazione delle risorse centroasiatiche – e l’ha applicata all’Europa Centro-Orientale, che sarà scavalcata sia a nord sia a sud da due nuovi gasdotti gemelli.

Il Nord Stream correrà da Vyborg in Russia a Greifswald in Germania passando sul fondale del Mar Baltico, per una lunghezza totale di 1222 km. Il consorzio incaricato della sua realizzazione, presieduto dall’ex cancelliere tedesco Gerhard Schröder, riunisce Gazprom (con una quota di maggioranza assoluta), le tedesche Wintershall e E. ON Ruhrgas e l’olandese Gasunie. Il costo stimato si aggira sugli 8-9 miliardi di euro ed al 70% sarà coperto da prestiti bancari. Nel 2011 è prevista la messa in funzione e nel 2012 il completamento del gasdotto, che avrà una capacità di 55 miliardi di metri cubi all’anno.

Sul lato sud è invece la nostra ENI a fare la parte del leone, in collaborazione con la solita Gazprom. Nel 2003 le due compagnie hanno realizzato il Blue Stream, un gasdotto sottomarino che collega la Russia alla Turchia e che quest’anno dovrebbe raggiungere la piena capacità di 16 miliardi di metri cubi l’anno.

La collaborazione italo-russa è alla base pure dell’ancor più ambizioso South Stream: un gasdotto che partirà dalla Russia, passerà sul fondo del Mar Nero (attraversando le acque territoriali turche) fino in Bulgaria, e da qui si sdoppierà in due sezioni che giungono l’una in Puglia e l’altra in Austria, coinvolgendo nel tragitto anche Grecia, Serbia, Slovenia e Ungheria. Si prevede di completare il progetto per il 2015, ad un costo complessivo compreso tra i 19 e i 24 miliardi di euro e con una capacità di ben 63 miliardi di metri cubi l’anno.

Applicando la suddetta strategia – potenziamento dei propri canali di smercio in Europa Occidentale “saltando” gl’inaffidabili paesi di quella orientale e dirottamento verso Cina e India delle potenziali fonti alternative d’idrocarburi, ossia Asia Centrale e Iràn – Mosca pare stia vincendo la partita dell’energia con Washington.

Non è forse un caso, alla luce dei fatti, che, dopo decenni di resistenze, gli Statunitensi siano diventati improvvisamente sostenitori zelanti della tesi del “global warming” provocato dal “effetto serra”, e puntino decisamente ad un progressivo abbandono degl’idrocarburi a vantaggio di nuove fonti energetiche.


Sull’argomento vedi anche:

I rapporti Italia-Russia, l’Ambasciata USA ed il declino di Berlusconi

Shale gas vs South Stream. La campagna del “Corsera”

«Rapporti con la Russia: in Germania non ci sono le polemiche italiane» – S. Grazioli

«Per gli USA è facile influenzare la politica italiana» – D.Scalea all’IRIB

Europa e Russia: gas-Ostpolitik

L’agenda geopolitica di Wikileaks ed il South Stream

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